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Giovedì, 15 Aprile 2021 15:37

Un misterioso equivoco

Scritto da Marco Battista

Incontro con il fantastico di Marco Battista

Non avrei mai pensato di mettere nero su bianco una storia come questa, e invece mi ritrovo seduto alla mia scrivania a fissare lo schermo del computer. Mi chiamo Tinto e per il mio compleanno ho deciso di regalarmi una breve vacanza in un monastero.

Be’, per la verità non la definirei proprio una vacanza, diciamo piuttosto che sento la necessità di riordinare un po’ la mia vita, ma soprattutto i miei pensieri. Lo definirei piuttosto un breve periodo di riflessione, ecco. Certo, avrei potuto scegliere mille altre località dove poter riflettere, ma sono sempre stato attratto da eremi, castelli, cattedrali; luoghi spesso sfuggenti, oscuri e persino inquietanti, ma avvolti da misteriose e inafferrabili leggende che spesso si perdono nella notte dei tempi. Scosto la tenda e guardo attraverso la finestra. È ancora buio. Le lancette dell’orologio sul comodino segnano le cinque del mattino. Mi sono svegliato troppo presto, ma da quando Grazia se n’è andata vivo con un costante senso di sofferenza che non mi abbandona mai. Ah, Grazia è la mia ex moglie.

- Devo parlarti. - Fu con queste parole che Grazia mi accolse un triste giorno, impeccabile come sempre nel suo modo di vestire. La guardai ed ebbi un tuffo al cuore, lo stesso di quando l’avevo vista la prima volta. Avevo per moglie una donna che tutti gli amici mi invidiavano, e avevo finito per convincermi di non meritarla, vivendo con il timore costante che un giorno mi avrebbe lasciato. Già l’anno prima avevo notato quella strana luce nei suoi occhi, quando avevamo attraversato la nostra prima grande crisi. Grazia aveva deciso di lasciarmi, ma solo qualche settimana dopo la ritrovai seduta davanti alla porta di casa nostra con le ginocchia incollate al petto e le guance rigate dalle lacrime. Fissai i suoi occhi sfuggenti, sempre in cerca di qualcosa. Una parte di me bramava dalla voglia di vederla tormentarsi dai sensi di colpa, ma singhiozzando mi promise che sarebbe rimasta per sempre con me e che mi avrebbe donato anche il figlio che avevo tanto desiderato. Dio... erano quelle le parole che avevo sempre atteso. La perdonai. Ero certo che avremmo vissuto il resto dei nostri giorni come in una favola, e ogni volta che esternavo i miei timori lei sorrideva della mia insicurezza e mi arruffava i capelli rassicurandomi che ero l’unico uomo che amava. Ma il timore di restare un’altra volta solo non mi ha mai più abbandonato e oggi quel timore si è trasformato in realtà. Grazia se ne sta ferma di fronte a me, in piedi. Allarga le braccia e sospira.

- Devo parlarti, ma non so da dove cominciare, - dice schivando volutamente il mio sguardo. Per lo più mormora parole confuse, frasi interrotte da sospiri e labbra contratte. Forse vuole semplicemente lasciare a me il compito di intuire. Ma io so benissimo di cosa deve parlarmi. Sento la terra mancarmi sotto i piedi e temo che il cuore possa schizzarmi fuori dal petto. Mi sembra d’impazzire. Mi era bastato pochissimo per innamorarmi di lei: forse era stata tutta colpa della luna piena, o del fatto che ballasse disinvolta nonostante indossasse scarpe con tacchi altissimi. Magari erano stati i suoi occhi maledetti, che durante il karaoke non aveva fatto altro che tenermeli sempre addosso. Prendo fiato e farfuglio qualcosa, tento di farla ragionare, ma in un angolo della sala ci sono le sue valigie. Vorrei gridarle in faccia che è solo una stronza, ma il dolore mi ricaccia indietro le parole. Il mio sguardo cade nuovamente sulle valigie, ed è allora che capisco che non serve più a niente parlare perché ha già deciso tutto quanto da sola. Proprio come l’ultima volta. E invece adesso lei mi sta nuovamente pugnalando alle spalle. Ma questa volta è finita davvero, non sono più disposto a perdonarla. Trascina via le valigie, un ultima occhiata e chiude la porta alle sue spalle. Forse si aspetta una scenata da parte mia, forse vorrebbe che scoppiassi in lacrime pregandola di restare. E invece niente, non dico una parola. Mi sento come se una voragine si aprisse e mi ingoiasse, perché appena resto solo comincio a dinoccolare goffamente senza sapere cosa fare, dove andare. Finisco per crollare sulla sedia, con la testa fra le mani e lo sguardo chino sul pavimento a immaginare cose che esistono soltanto nella mia mente. Ma non devo commettere lo stesso errore dell’ultima volta, che ci mancò poco che finissi sul letto di un dannato strizzacervelli. No, questa volta voglio reagire. Spalanco le finestre, mi verso un triplo whisky e come un automa mi siedo davanti al computer. Finita la ricerca, prendo il telefono e compongo il numero. La voce maschile dall’altra parte è calma e pacata, mi rasserena e mi fa sentire subito meglio. Termino la telefonata e tiro un sospiro. È fatta: domani mattina partirò per il monastero di Parco degli Ulivi. Ora non mi resta che preparare la valigia. Scendo nel sottoscala e scelgo quella più adatta a contenere l’occorrente per restare qualche giorno fuori casa. Durante tutto il viaggio fino a Sassoferrato, non faccio altro che pensare a cosa mi aspetto di trovare. Ma soprattutto ho un gran bisogno di parlare, di fare ordine nella mia vita e la mia speranza è quella di trovare qualcuno disposto ad ascoltarmi, magari passeggiando nell’ampio cortile o tra le magnifiche volte in pietra che ho potuto ammirare dalle immagini su internet. Arrivo prima di mezzogiorno, è nuvoloso e la leggera nebbia dona al monastero un aspetto ancora più misterioso e austero. Ho l’impressione di essere solo. Poi avverto un rumore, ma è attutito, discreto, come qualcuno che tema di profanare il silenzio che aleggia nell’aria. Intravedo sulla destra un magazzino, la porta è semiaperta, la spingo ed entro. I due uomini non si sono accorti della mia presenza, continuano a lavorare in silenzio. Quasi mi imbarazza disturbarli, ma devo farlo. Mi indicano l’entrata, li ringrazio e raggiungo l’entrata davanti a un antico portone in legno massiccio. Do qualche colpo col battiporta (ho sempre desiderato farlo!) e aspetto. Ad accogliermi è una graziosa ragazza, Simona, che si presenta come la guida del monastero. Ha un viso minuto, delicato, i capelli lunghi e ondulati raccolti in una coda leggera. Si siede a una scrivania all’interno di una fornitissima biblioteca, digita qualcosa al computer e mi chiede di aspettare. Don Paolo è sulla trentina, indossa un paio di sandali e un lungo saio scuro. Mi accompagna alla mia stanza e mi mette a conoscenza degli orari delle funzioni religiose e dei pasti.

- Oggi è stata una giornata frenetica, soprattutto per il priore. Tornerà a tarda sera, quindi ci saranno soltanto i vespri alle 19,30. - La stanza dove alloggio è essenziale, e l’unico rumore che spezza la monotonia del silenzio è dato delle campane che ogni quarto d’ora scandisce il ritmo della vita. Spengo il cellulare che ripongo in un cassetto e comincia da qui il mio viaggio spirituale. All’ora di pranzo faccio la conoscenza degli altri monaci. Mi meraviglio di quanto siano pochi per un monastero così grande. Don Franco è il più anziano di tutti. Ha un’espressione serena, la stessa che cerco anch’io e che spero di trovare fra queste mura. Il pasto è semplice, ma è tutto più gustoso. La cucina è spaziosa e una lunga tavola di legno massiccio fa da padrona. Dopo il pranzo i monaci si ritirano nelle loro stanze. Seguo il loro esempio. La voce delle campane sussurra che mancano quindici minuti alle diciassette. È quasi buio, ormai. Non ce la faccio più a stare nel letto a leggere, così prendo la macchina fotografica ed esco in cerca di qualcosa che ancora non so. Ripercorro il lungo corridoio e mi accorgo che sopra ogni stanza è riportato il nome latino di un santo: S. Dominicivs, B. Gvidvs Aretinvs, S. Joannes M., S. Bonifacivs Esp M., e così via. Raggiungo la cripta e resto incantato dalla purezza essenziale dell’altare posizionato su un rialzo. Continuo il mio giro e sul davanzale di una finestra, delicati fiorellini rossi mi ricordano che la vita ostenta il suo vigore ovunque. Mi avvicino per annusarne il profumo e dal vetro scorgo un cortile con un pozzo nel mezzo, oscuri e misteriosi contenitori. Non riesco a tenere a freno la mia immaginazione. Scendo in cortile per guardare dentro il pozzo, ma un rumore alle mie spalle me lo impedisce. Faccio appena in tempo ad allontanarmi che un monaco si avvicina. Indossa il saio e con il cappuccio rialzato non riesco a riconoscerlo. Si avvicina al pozzo, sposta la trave e lascia scivolare all’interno uno strano involto tenuto da uno spago. Chissà che cosa nasconde. Poi una congettura si fa strada prepotente. Forse non lo sta nascondendo, forse è qualcosa di compromettente di cui vuole liberarsi. Mi allontano e mi ritrovo nel corridoio, e da una porta semiaperta sento provenire una flebile voce. La voce del frate che sta discutendo al telefono appartiene a don Tito, sembra piuttosto agitato e preoccupato, e sembra avere fretta di sapere una certa cosa ma qualche attimo dopo si placa. “Questa volta vieni tu da me. Vedrai che ci divertiremo come l’ultima volta - sogghigna soddisfatto.

- Sì, va bene. Come vuoi tu. -

- Allora ti aspetto in camera mia ma fai piano, ricordi l’ultima volta che l’abbiamo fatto? C’è mancato poco che ci scoprissero. - Scuoto la testa, incredulo. Alla faccia del monastero! Già li immagino mentre... Dio! Al solo pensiero sento la nausea salirmi alla gola. Don Tito deve essersi alzato e ora si appresta a uscire. Chissà che cosa lo ha turbato, e dove sta andando con tanta fretta. Qualcosa mi dice che si sta recando al pozzo per recuperare l’involto. Si alza il cappuccio e si dirige di buon passo verso il cortile, si ferma davanti a una delle stanze e prima che possa bussare la porta si apre e dalla stanza vede uscire don Paolo. I due si osservano imbarazzati per qualche secondo, poi don Paolo entra. Resto dietro la porta chiusa e li sento parlare.

- Lo so, sono in anticipo ma non resisto più. -

- Tu... sei pronto? - sento chiedere da una voce maschile.

- Sì, certo. Perché vorrei... insomma se si potesse... -

- So cosa vuoi... È la prima volta per te? -

- Sì. -

- La prima volta si esce un po’ scombussolati. - dice la voce misteriosa.

- Per il pagamento? -

- Nessuna fretta, pagherai dopo. -

- Straordinario, da non credere! Don Paolo aveva ragione, ma non immaginavo fosse così... -

- Intenso e meraviglioso? - conclude l’uomo misterioso.

- Esattamente. Sei davvero unico. Ecco, questo è per il servizio, sempre poco in confronto alle emozioni che mi hai fatto provare. Posso tornare domani? -

- No, meglio se torni fra qualche giorno e ti farò provare qualcosa di nuovo. Ora vai a prendere l’involucro. -

Don Tito apre la porta e ripercorre a ritroso il lungo corridoio, scende in cortile, si avvicina al pozzo, solleva il coperchio, tira su lo spago, afferra l’involucro e lo nasconde fra le pieghe dell’ampio saio. Il mistero s’infittisce. Nella mia testa si accavallano pensieri e immagini disgustose, come già qualche volta mi è capitato di leggere sui giornali. Un brivido mi attraversa la schiena. In questi luoghi dovrebbe regnare l’amore spirituale per il prossimo e non quello carnale sul prossimo. Quella sera a cena c’è anche don Giorgio, il priore. È un uomo sulla quarantina o poco più. Nonostante abbia molte responsabilità, ha la capacità di trasmettere una grande serenità e i suoi occhi emanano una luce così viva che quasi mi sento in colpa a pensare che possa essere coinvolto in qualcosa di poco consono all’abito che indossa. Per tutto il tempo che siamo seduti a tavola, i nostri sguardi si sono sfiorati più di una volta ed è come se da un momento all’altro mi aspettassi un rimprovero per quello che avevo fatto. Terminiamo di cenare in fretta, troppo in fretta, poi i monaci si alzano e il priore mi invita a tornare nella mia stanza. I suoi toni sono sempre molto delicati, ma capisco che sono di troppo. Strano. Troppo strano. Ormai sono più che certo che la loro bontà è solo una parvenza e che nascondono qualcosa di indicibile e vergognoso. Torno nella mia camera disgustato e mi distendo sul letto con le mani dietro la nuca e rimugino su tutto quello che è successo fino a quel momento. La pace che avverto è insopportabile. “Il silenzio allena la mente”, ho letto da qualche parte. Il brontolio delle campane riecheggia nella mia stanza e allo scoccare della mezzanotte sento qualcuno camminare lungo il corridoio. Chi può andarsene in giro a quest’ora di notte? Decido di contare i passi: dodici passi esatti dal momento in cui una porta si chiude e l’altra si apre. E così via per ben tre volte. La stanchezza svanisce in un attimo, mi riverso nel corridoio e dopo dodici passi mi ritrovo davanti alla camera S. Bonifacivs Esp M. Incollo l’orecchio alla porta e quello che sento mi fa venire i brividi.

- Piano... fai piano... sì, così... bravo... devi prenderlo con entrambe le mani sennò succede come l’ultima volta. Ricordi cos’è successo l’ultima volta, quando lo tenevi con una mano sola? -

- Sì, don Tito ma... -

- Niente ma. Fai come ti ho detto. Ecco sì, così, bravo... Adesso sì. -

Non credo alle mie orecchie. Ho la gola arida, non riesco a ingoiare né a parlare. Scuoto la testa, ricacciando il disgusto che provo nell’immaginare quei monaci mentre... Dio, che schifo! Ma giuro a me stesso che se sento un’altra sola parola, mi sentiranno. E puntualmente...

- Senti com’è pastoso, rotondo, pieno... Dio che bello... Ancora... fammelo sentire ancora, ti prego. - Adesso basta davvero. A tutto c’è un limite e devo dire che lo hanno superato già di gran lunga. Respiro a fondo, afferro la maniglia e apro la porta, irrompendo nella stanza come un autentico agente della buoncostume.

- Il festino è finito. Voi non siete monaci, voi siete... siete... - Mi aspettavo di trovarli mezzi nudi e in posizioni audaci, spinte, lascive e invece vedo don Paolo e don Tito che mi fissano increduli, mentre una dolce musica accarezza le mie orecchie.

- Non ti hanno insegnato a bussare prima di entrare? - mi rimprovera don Tito con un’espressione severa e allo stesso tempo stupita.

- Io... io mi aspettavo di trovarvi... - balbetto mortificato. - Il fatto è che vi ho sentito dire cose oscene e invece voi... voi state... -

- Stiamo ascoltando un disco. - m’interrompe don Paolo, indicandomi l’LP che don Tito tiene ancora in mano. - Ti prego, fratello, non raccontare al priore quello che hai visto fare in questa stanza. - mi guarda con un’espressione di supplica, tenendo le mani unite al petto. - Qui non è permesso ascoltare musica, ma la musica è parte della nostra vita e sono certo che anche a nostro Signore sarebbe piaciuto Beethoven. - Sorrido e annuisco con un cenno del capo.

- Ma... vi ho sentito chiaramente dire tutte quelle cose oscene... -

- Intende dire... pastoso, rotondo, pieno? -

- Esatto... e che voleva sentirlo ancora, che era così bello... - don Paolo mi guarda, scosso da una corposa risata che lo scuote.

- Sono un appassionato di musica classica e colleziono dischi da quando ero ragazzo. Un vinile devi maneggiarlo con attenzione, trattarlo con cura, molta cura, e per rimuovere la polvere devi eseguire delicati movimenti circolari - mima il gesto con la mano - come una carezza. Vuoi forse negare che il suono di un vinile sia... pieno, rotondo e morbido? Anche sporco, a volte, ma mai freddo come quello di un Cd. - Sarei voluto sprofondare dalla vergogna. È stato un equivoco, solo un misterioso equivoco. E io avrei fatto meglio a verificare, prima di trarre conclusioni affrettate. No, non mi ero sbagliato: questi monaci sono proprio brave persone. Mi sento così stupido.

Ora capisco che erano loro a nascondere e recuperare i pacchi, all’insaputa del priore. Decido di non dire nulla a riguardo. Sarà il nostro segreto. Faccio per uscire dalla stanza, mestamente, ma don Paolo mi ferma.

- E ora che fai? Suvvia, chiudi la porta e resta con noi. - don Paolo indica una sedia accanto allo scrittoio. Fa un cenno a don Tito che con rinnovato entusiasmo sfila il disco dalla copertina e lo adagia dolcemente sul giradischi e subito le note svolazzano per la stanza avvolta dalla penombra. Mi rilasso e affido i miei sensi alla soave musica di Beethoven, Bach, Chopin e altri che nemmeno conosco. Chiudo gli occhi e mi lascio avvolgere dalla musica. La musica sta terminando e le note lentamente svaniscono e don Tito apre le imposte. Lo guardo e con un’espressione soave e amareggiata in viso sussurro:

- Restate ancora un po’. Me lo fate sentire ancora? Vi prego... -

F I N E

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