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Martedì, 24 Agosto 2021 16:36

Il delitto infame per fame.

Scritto da Angelo Tarquinio

Era una coppia piuttosto burrascosa e seppure nell’epoca dove le donne prendevano le botte e zitte, questa femmina, fece fronte più volte a suo marito. Comportamento intollerabile per una mente maschile di quel periodo. Il divorzio era ancora lontano e nel millenovecentotrentacinque un oltraggio e un atteggiamento di questo genere si riparava con reazioni e atti ancora più pesanti.

L’uomo, avvilito ed inferocito per la condotta intollerabile della donna che, innanzi tempo rispetto all’epoca, si ribellava al suo predominio, decise di liberarsene uccidendola. Convinse per fame, promettendogli un sacco di grano, un suo compare ad aiutarlo e la congiura prese forma.

Quell’estate quando la coppia accompagnata dall’amico andò a fare la legna a Coll’Arcone, proprio sull’orrido di valle d’Angri, il progetto si trasformò in tragedia e la donna scalciando e supplicando i due assassini di graziarla e lasciarla andare fu lanciata nel vuoto. L’urlo disumano si interruppe dopo il primo tonfo, poi il rumore del corpo che rotolava e sbatteva si spense fra rami e i rovi spezzati. Un corpo incolpevole giaceva a mezza rupe, lontana dagli sguardi degli uomini e dalla capacità dei montanari locali di recuperalo.

Passò qualche settimana e l’assenza della donna insospettì i vicini che ormai erano avvezzi a urla e litigi e trovarono strano quel silenzio. Il primo ad indagare fu Francesco di li Muntanire la guardia, ma quando capì che sotto quell’assenza c’era qualcosa di losco allertò i carabinieri di Civitella Casanova. Il marito della donna giustificava la lontananza della moglie, che non si vedeva da qualche settimana, poiché in visita ai suoi parenti di Castel del Monte.

Francesco la guardia incrementava lo scarso stipendio di agente comunale facendo il calzolaio e fra una suola e un sopratacchi cominciò un’indagine parallela ai carabinieri. Agganciò un assiduo amico del sospettato che lui riteneva avesse avuto parte, in qualche modo, alla scomparsa della donna e lo allettò con una promessa. “Se mi racconti tutto, ti faccio un paio di scarpe che ti dureranno per tutta la vita”. L’idiota non capì l’allusione ad una vita tanto ristretta da non consumare scarpe e fra un bicchier di vino e una partita a carte l’astuto Sherlock Holmes si fece raccontare tutto. Il compare, anche lui un assassino, si giustificò dicendo “L’ho fatto per fame, avevo bisogno di quel quintale di grano”. “Più che metterlo in galera a mangiare pane a sbafo, ti veniva voglia di prenderlo a schiaffi e calci nel culo quell’idiota” ha raccontato Francesco per anni, tanto rimase scosso per quella vicenda.

Fu compito dei carabinieri far confessare l’uomo, e gli sbirri non sono teneri quando si tratta di delitti atroci. Non lo sono oggi che uno starnuto in carcere viene immediatamente riportato su tutti i blog, immaginate ottanta anni orsono come poteva essere durante il fascismo un interrogatorio.

Quando arrivarono al luogo indicato dall’assassino, il corpo della donna dopo un volo di qualche centinaio di metri, si era fermato su una sporgenza a mezza costa. Non si vedeva, ma la presenza di corvi e cornacchie che si disputavano un pasto su quella rupe non lasciava speranze sulle condizioni di quel corpo straziato.

Si aspetto una settimana l’arrivo di un gruppo di soldati alpini per recuperare il corpo. Arrivarono dal Piemonte e li comandava un capitano di Torino che soppesò la situazione. Valutò le pendenze. Stimò la velocita’ del vento e…non fece niente. Gli alpini erano tutti ragazzi di leva alle prime armi e, forse, una rupe non l’avevano vista mai e avevano paura a scendere.

Il fatto aveva radunato decine di curiosi che aspettavano il recupero, fra cui Dell’Orso Nicola di Farindola che su quelle montagne ci viveva spaccando legna e pascolando pecore. L’uomo, era nato nel milleottocentosettanta e in quella rupe era sceso più volte senza corde per recuperare carcasse di pecore che erano cadute sotto. Nicola era un tipo focoso e visto che i recuperanti non si decidevano cominciò a borbottare. “Pì forze”, disse “La gente nostra si po’ fracicà sotto a lu ciele, ngè frètte. Si po’ spittà! Vuleve vedè se era na piemontese? Pure la marine facevene vinì. Sta povera femmene a da truvà sepoltura al chiù preste”. Lui non era tenero con la sua Giuditta con cui ogni tanto si pellicciava e faceva a botte. “Ma” asseriva, “Nzì va oltre le botte!”.

Nicola più borbottava e più s’incazzava e i suoi amici sapevano che cos’era capace di combinare quando arrivava alla temperatura giusta e gli suggerirono; “Nicò, vacci tu!. Ci si calate tanta vodde”.

Il nodoso montanaro si presentò al capitano degli alpini e gli disse”Ci cale jìe”. Scese senza corde come un camoscio raggiunse la sporgenza su cui giaceva il corpo. Gli avevano dato una benda e della canfora per superare l’odore tremendo del corpo in decomposizione. L’uomo pietosamente lo avvolse in una tela che aveva portato con se e lo imbracò alle corde che si era trascinate dietro. Nicola risalì mesto e pietoso dietro il corpo martoriato e non voleva nessun compenso per quel gesto di umanità. Insistette il capitano che aveva perso la faccia per non essere riuscito dove un grezzo montanaro era arrivato. “Se proprio mi vuoi pagare” disse Nicola “Solo perché ho fatto quello che dovevi fare tu. Non perché ho riportato a casa lei.” Chiese trecento lire e il capitano glie ne contò trecentocinquantà e disse: “Tu non li capisci proprio i soldi montanaro. Questo era un lavoro da mille lire”. “Piemontè, si tu chi continue a nì capì”. Gli rispose il farindolese

Con quelle trecento lire Nicola comprò uno staccone. Un asino giovane che suo nipote Arturo, che mi ha raccontato una parte di questa storia, ricorda ancora. L’asino, mi dice, era più incazzoso del suo padrone.

Questa vecchia memoria Arturo me lo ha narrato mentre insegnava a me e ai miei amici a fare il carbone sulla Montagna di Montebello di Bertona fra gli stessi boschi dove suo nonno, Nicola di Cicoria, era stato un camoscio.

Ultima modifica il Martedì, 24 Agosto 2021 17:59

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