Stampa questa pagina
Sabato, 06 Marzo 2021 12:31

Mai sazio, di Silvio Madonna

Scritto da Silvio Madonna

 Un’ora, anche meno, cinquanta minuti. Ogni giorno è così, dal lunedì al venerdì, dalle tredici alle quattordici. Oddio, quando va bene, perché l’orario di arrivo non è mai certo, mentre quello di uscita…

Avrebbe preferito avere una moglie in casa che la mattina, prima di uscire, gli preparasse una gavetta di minestra, anche quella avanzata dalla cena, o una fetta di carne al sugo, una spartana frittata con un pizzico di grana a darle spessore. Ma era single, da sempre, e finanche con tutta la buona volontà che non gli difettava quella fatica proprio non se la sentiva di sopportarla per affrontare la giornata. Meglio - si fa per dire - quella modesta trattoria in convenzione, dove i tavoli erano dieci e cinque gli avventori, tutti del suo ufficio, che pur di guadagnare un sfarinata di ipocrita tranquillità consumavano ciascuno a un tavolo diverso. Se il caso voleva che li trovassero occupati un aperitivo al banco e via di corsa, pur di non dover incrociare negli occhi il collega già a fatica sopportato incollati alla scrivania. Una sforbiciata di minuti per mandare giù il secondo del giorno con i contorni sempre gli stessi: patate fritte e insalata. Che potevano andare con la fettina di vitello impanata, con la coscia di pollo infornata, con la platessa fregiata dai pachino, con il tonno affogato nell’olio di semi. Mai chiedere, solo ascoltare il richiamo del naso: si entrava e si sapeva di che morte morire. Anche se raffreddati, anche se influenzati, anche se svogliati un odore prominente: il soffritto di cipolla, che secondo lo standard dello chef poteva legarsi a ogni suo piatto, fosse anche un cappuccino con molta schiuma o una pastarella alla panna con le fragoline. La tovaglia di carta con i fiorellini rosa, il piatto bollente di lavastoviglie, le posate umidicce, la bottiglia d’acqua, un calice di vino rosso: un acetello rivestito di cristallo per dargli più consistenza, forse dignità. La ragazza di sala con poca voglia di salutare, il grembiulino schizzato di sugo e le scarpe basse ad alleviarle la giornata nel correre avanti e indietro.

Il televisore acceso, nessuno che ne guarda un’immagine: solo la pubblicità distoglie, perché inganna, incunea nel sole e nel mare, tra belle donne e auto potenti, in case da favole e tra scrosci di sorrisi e ammiccamenti. Un inganno seriale, eppure la lingua corre sulle labbra e ne assapora il gusto quasi fossero quelle figurazioni patinate un trionfo di crostacei appena pescati. Sul tavolo il giornale spiegazzato con le notizie di cronaca: le più truci, quelle che fanno sobbalzare, anche se sempre meno. Ormai il callo è consolidato, e anche una strage di marmocchi innocenti oltre una smorfia non merita. Non si ordina, si attende: poco, perché già è tutto pronto da ore. Giusto una scaldatina e la porta si apre. La cameriera arranca con un piatto fumante inseguita da aglio, aceto, basilico, prezzemolo, peperoni e cipolla. Una nebbia intrisa di tutto che l’avvampa come una santa e che svanisce alla vista di un laico miscredente. Finge un sorriso, in realtà è un’unghiata: tiè, strozzati, sembra dire con voce adirata mentre parcheggia il piatto fondo. Perché che sia carne, brodo o pasta sempre il fondo si usa. Fa spessore, dà l’idea di pienezza, riempie gli occhi prima del ventre. Sculetta un tantino, più per abitudine che per civetteria, sbircia il giornale, un titolo sembra colpirla: tossisce, poi si defila per un altro trasporto rapido. Lui fissa il piatto ma non lo assapora, lo annusa soltanto: continua a scorrere l’articolo. Legge senza leggere. Mastica le sillabe muovendo le labbra senza coglierne le accezioni. È preso da altro: non dal sugo, dagli spaghetti acconciati alla meglio, dal grana ingiallito. È assalito dai ricordi, dalle fettuccine al ragù che sua madre, da bambino, ma solo di domenica, smuoveva nella pignatta di coccio, aggiungendo palate di salsa rovente che le facevano annegare e riemergere magicamente. E quelle sfarfallate di parmigiano appena sfregato, a chicchi quasi fosse del grano, giallo di purezza, il cui effluvio s’infilava nelle narici e fare il paio con il peperone che mai mancava in ogni sua pietanza.

Che pasto, che pasta, che sugo, che saga ogni giorno di festa.

Scostò il giornale e meccanicamente lo infilò nella tasca della giacca. Un’occhiata all’orologio appeso nella sala: venti minuti alla una, doveva sbrigarsi. Due forchettate, una pulitina alle labbra, un sorso di vino. Dieci volte da replicare e poi via al contorno, planato senza che se ne fosse accorto e che nulla aveva a che vedere con quel primo introitato. Infine il caffè, senza zucchero, tanto il sapore sarebbe stato lo stesso. Mangiare per sopravvivere, mangiare per dovere, mangiare per schivare un’ora. Scostò la sedia, salutò senza guardare chi avesse davanti e lasciò il locale. Era venerdì, se ne sarebbe riparlato dopo due giorni. Il tempo di fare la spesa, riaprire il messale con le ricette semplici e buone che sua madre gli aveva consegnato alla sua prima partenza, e cucinare qualcosa che sapesse di buono, di piacere, di voglia di vivere. Che scuotesse il suo gusto, per troppo sopito ma mai domo.

Articoli correlati (da tag)