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Lunedì, 01 Marzo 2021 16:09

La via di Fuga, un racconto di Silvio Madonna

Scritto da Silvio Madonna

di Silvio Madonna

Era da diversi anni il punto finale di ogni sua disavventura.

Che fosse di lavoro, di amicizia, di amore sapeva che da lui poteva rifugiarsi. Un’ora, un pomeriggio, una notte, persino una settimana: decideva lei e come appariva così se ne andava. Di soppiatto, senza spiegazioni, se non quella di lasciare ogni volta, mai che ne dimenticasse una, un biglietto sul tavolo calcato da una bottiglia di prosecco. Grazie della pazienza, in questo sei unico! Lui ogni volta lo leggeva sorridendo, lo appallottolava e infilava il fiasco in frigorifero. In attesa di una sua prossima apparizione. Rientrò dal negozio (aveva una ferramenta, lasciata dal padre e che suo fratello a sua volta gli aveva rifilato quasi fosse un regalo) per l’ora di pranzo: era sabato e non avrebbe riaperto se non il lunedì mattina. Luglio inoltrato, un caldo feroce, eppure sapeva di trovare il suo appartamento fresco. Esposto a nord, ombreggiato da un filare di cipressi, con le grandi finestre lasciate socchiuse era come se fosse istallato un climatizzatore. Chiuse la porta, si sfilò la cravatta (altra didattica paterna indissolubile: neanche fosse stato un professore mai sarebbe uscito senza), scalciò le scarpe e gettò le chiavi della macchina su un ripiano del soggiorno. Respirò forte, socchiuse gli occhi, e per un attimo trascurò che erano le due, che qualcosa doveva pur mettere nello stomaco. Ma quel fresco e quell’aria che sapeva di mare e collina, dopo il caldo asfissiante, lo stavano quasi saziando. Gettò un occhio distratto e la vide sdraiata sul tappeto ai piedi del sofà. Giada era entrata, come sempre senza farsi annunciare: aveva le chiavi, e quel vezzo zingaresco di coglierla come una ladra gli piaceva da impazzire. Era come se avesse una giovane moglie (aveva sessant’anni, non era più da tempo uno scapolo alla ricerca) che per lavoro era solita viaggiare come una trottola, senza mete e orari prefissati, per poi regalargli la sorpresa di farsi trovare. La osservò intensamente: doveva essere li da parecchio, si era profondamente addormentata. Ma non come tante altre volte, raggomitolata sul divano, abbracciata ai cuscini, con i pugni stretti sulla difensiva. No, era distesa sul canapone avana, supina, con le braccia tirate dietro a consentire alle mani di intrecciare le dita dietro la nuca.

Nuda, totalmente nuda, mai così nuda. In quel preciso punto dove un intreccio di aria salmastra tra le imposte accostate doveva averle garantito il fresco che anelava. Così non l’aveva mai vista: spogliata si, a volte un seno, una natica, mentre si lavava in bagno visto che mai chiudeva la porta. Ma completamente senza veli mai. Felpato le si avvicinò. S’inginocchiò e la fissò a lungo negli occhi assenti. Aveva un’espressione serena, forse stava sognando. O magari no, stava solo dormendo di sasso. Le passò la mano aperta sulle labbra, quasi volesse tagliarle il respiro. Non stava fingendo, dormiva davvero. Era bella, più bella di come le era apparsa altre volte, e quasi se ne stupì di non essersene mai accorto. Senza un perché si avvicino con il volto alle sue caviglie, appena discoste e notò i piedi ritti a martello: oddio è morta, pensò senza crederci. Ma no, non può essere, avrebbe disegnata una smorfia di dolore sul viso, e mai le dita intrecciate dietro la nuca. È solo in coma, rimuginò sorridendo. Ebbe l’istinto di baciarle, ma si trattenne. Che profumo di gioventù, di freschezza, di donna. Con lentezza risalì sino alle ginocchia, poi alle cosce. Tornite, scostate quel poco per non patire la carne sudata. Ancora più su, al pube, marchiato da un rigo di peluria che ne accentuava la sensualità. Ispirò profondamente: sapeva di buono, di bello, di troppo. Non poteva staccarsi con gli occhi da quel quadro, anche se erano le sue narici a sovrastarlo. Era mare, montagna, lago, collina, verde, deserto. Era il torpore e l’insonnia, la fame e la sazietà, il gioco e il lavoro, la vita e la morte. Un film dalle mille immagini, bianche, nere oppure a colori, in italiano o in cinese, senza trama ma comprensibile. Respirò con il naso, espirò con la bocca. Era sott’acqua, al limite dell’affogamento.

Era in una tormenta di fuoco, stava per soffocare. Quell’effluvio vitale il suo nutrimento, più di un pranzo, di una cena, di una colazione all’inglese, di un tramezzino dopo ore di attesa ad un simposio di gala. Tirò su il volto e si arrampicò orizzontale sino al collo, alle gote, alle tempie, ai capelli. Si sentita un tossico al limite della tolleranza per aver tirato troppa neve. Ma non era sazio, il suo respiro lo voleva ancora dentro, per poterlo conservare, come quella bottiglia di prosecco che quando la sturava gli ricordava che non era solo, ma da solo viveva. La baciò sulla fronte e lei, come nelle favole, schiuse lo sguardo: staccò le mani dalla nuca, le puntò al cielo della stanza, inarcò la schiena, e sibilò: ciao, come stai? Poi lo tirò a sé pigiandolo sui seni. Gli voleva bene, forse lo amava, ma se glielo avesse confessato non sarebbe stata più la stessa cosa. Per lui e per sé.

Mi prepari un caffè? Rise forte. Quanto sei buffo, neanche mi vedessi per la prima volta. Non puoi capire che faccia hai… Con un’inaspettata mossa da judoista lo ribaltò: gli si mise sulla pancia, gli bloccò le spalle con le mani, lo baciò sulla bocca. Era tardi, era quello il segnale di sempre che al mattino presto sarebbe sgusciata via come mille altre volte. Senza salutare, solo accertandosi pignola che il biglietto fosse ben saldo al solito posto.

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