In alto, non colti, i cachi rimangono - a contrappunto tra cielo e terra - pizzicati da puntuti becchi
d'uccelletti stanziali. Altalenato assalto da esili rami. Dolcezza autunnale.
Indovina indovinello…
Come si chiama quel frutto rosso-arancio, grande più o meno come una mela che
vediamo in tardo autunno sull'albero ormai privo di tutte le foglie? Che si coglie non
ancora maturo e si mette a finire la maturazione vicino alle mele? Spesso i giovani non
sanno rispondere forse perché gli alberi di Diospyros kaki sono rari negli orti e nei
giardini di città, mentre i frutti si vedono sempre di più lontani dall'albero nelle vaschette
dei supermercati. Non molti anni fa i frutti erano una nota di colore nei giardini spogli,
spiccavano alle porte dell'inverno come un ultimo cenno di stagioni più ricche di frutta.
Ma si sa, se i frutti non si colgono per tempo cadono schiacciandosi in terra e sporcano
con la loro polpa gelatinosa. E poi oggi si commerciano, cosa che non avveniva almeno
una ventina d'anni fa, a parte nelle aree dove la coltura era ed è ancora oggi diffusa. Forse
è anche l'entrata nel circuito della grande distribuzione che rinnova l'interesse per questo
frutto, oggi valorizzato per la ricchezza di minerali, di vitamina C e per le sue proprietà
diuretiche, lassative, depurative e dunque anche per il suo nome in lingua o per le
denominazioni dialettali… in Sicilia viene chiamato u Kakì
Origine…
Il suo areale di origine è il Giappone e il nord della Cina dove veniva chiamato “Mela d’Oriente”. In Cina vengono coltivate oltre 2.000 cultivar. In Giappone ha un ruolo di primaria importanza nell’alimentazione del popolo nipponico.
Plinio, nei suoi scritti, parlava delle piante di loto, molto resistenti alle variazioni di clima, di terreno ed ai parassiti. In Cina viene anche chiamato albero delle sette virtù: “Lunga vita (possono vivere anche mezzo secolo); grande ombra; assenza di nidi fra i suoi rami; inattaccabilità da parte dei tarli; possibilità di giocare con le sue foglie indurite dal ghiaccio; la settima virtù è data dal bel fuoco che fornisce e dalla ricchezza in sostanze concimanti il terreno.”
La sua introduzione in Europa risale al 1796 ad opera di un inglese il direttore dell’Orto Botanico di Calcutta come pianta ornamentale, come testimoniano gli scritti di Filippo Re e dell’Abate Romani, ma cominciò a diffondersi solo nella seconda metà del secolo successivo. In Italia arrivò attraverso la città di Firenze dove il primo albero fu piantato nel giardino di Boboli.
Questa pianta viene detta “albero della pace”, perché al devastante bombardamento atomico di Nagasaki, dell’agosto 1945, sopravvissero soltanto alcuni alberi di questo frutto.
Il Ricordo…. I Cachi di nonno Costantino
Ogni anno, un pomeriggio d'autunno arrivava il nonno Costantino con il carico di cachi. Li portava con il carretto tirato dal cavallo. A dirlo sembra che sono nato nell'ottocento, eppure davvero mio nonno ci portava i cachi con il carro e il cavallo.
In effetti l'ho dovuto scrivere due volte per crederci pure io, e purtuttavia stento a crederci anche dopo averlo non solo scritto ma perfino riletto.
Tutti i bambini del quartiere di Santa Maria (inizio Ragusa Superiore…) accorrevano a vedere il cavallo del nonno, che però non era bello e aitante e lucido come il cavallo di Zorro o del nostro Santo Patrono “San Giorgio”; era infatti basso e tarchiato, e se non ricordo male anche un po' sporco, con le mosche che gli ronzavano intorno.
Probabilmente i miei compagni di giochi ci saranno anche rimasti male per quel vecchio cavallo spelacchiato, ma di ciò non ho memoria.
Quel che ricordo nitidamente invece è l'enorme carico del carretto: ma quanti erano quei cachi, se a me sovvien l'immagine di UNA MONTAGNA di cachi?
Erano davvero una montagna quei cachi o ero io ad essere piccolo?
Insomma questa montagna di frutti arancioni veniva sistemata su un tavolone dell'ingresso, un ampio e comodo locale che noi chiamavamo, con scarso senso di riconoscenza, ripostiglio.
I cachi non li spostavamo da lì, eravamo noi a spostarci quando volevamo mangiarne.
Sarà stata un'idea di mia madre, ci scommetto. Avrà decretato che i cachi si sarebbero mangiati direttamente sulla fontanella, così non avremmo sporcato in giro. Che la macchia di caco, si sa, non va più via.
La fontanella era un grande lavatoio di pietra color grigio scuro, che mia madre usava per fare il bucato; sotto di essa c'era una bacinella azzurra che avevo usato da piccolo per fare in caso d’emergenza la pipì… (allora avevamo in casa un solo bagno… inizio anni ’60), ora riciclato come contenitore degli avanzi di cibo da portare nel pollaio.
Era bello mangiare i cachi in compagnia dei miei cugini in ripostiglio, che non era un ripostiglio, appoggiate alla fontanella che non era una fontanella; dovevi solo stare attento a sporgere all'infuori il mento per non sgocciolare sui vestiti.
A quel punto il caco era pronto per affondarci la bocca, anzi la faccia intera.
Ci sbrodolavamo senza ritegno e lasciavamo cadere senza remore quel che non entrava in bocca. In pratica mangiavamo questi cachi in modo assai poco fine, quasi selvaggio.
Alla fine della scorpacciata rimanevano pezzetti di caco sui bordi della fontana, che scivolavano adagio, come lumache in cerca di luoghi migliori…