L’Aquila 3 marzo 2020 - Sarà inaugurata il prossimo 7 marzo la personale di Donatella Giagnacovo dal titolo “…di bianche spine”. Un’istallazione artistica, curata dalla giornalista e storica dell’arte Angela Ciano, pensata come riflessione sulla condizione della donna nel terzo millennio. Presso gli spazi dell’atrio, del cortile e della sede del Movimento Civico Politico Il Passo Possibile, nel Palazzo storico in Via Verdi 9 all’Aquila, si svolgerà il percorso di una mostra, visitabile fino al 14 marzo tutti i pomeriggi dalle 17.00 alle 20.00, che ha come filo conduttore il bianco come invito a ripensare e riflettere su stereotipi, soprusi e violenze che il mondo femminile è ancora costretto a subire. “Fin dall’apertura - spiega Fabrizio Ciccarelli Presidente del Movimento Il Passo Possibile - abbiamo detto chela nostra sede è a disposizione delle iniziative culturali della nostra città. Tanto più se esse servono a far riflettere su temi importanti come quello che la mostra di Donatella Giagnacovo ci propone. I nostri spazi , nel cuore del centro storico dell’Aquila, sono a disposizione delle esigenze di una comunità che attraverso la cultura e le sue manifestazioni sta cercando faticosamente di ritrovare una sua socialità”. L’esposizione che si svolge nella settimana che comprende la Giornata Mondiale della Donna, sarà inaugurata il 7 marzo prossimo alle 17.00 con un reading di letture, poesie e musica. Protagoniste saranno le intrusioni di Luisa Nardecchia, elzevirista, Andrea Viviani, linguista e poeta e Flavia Massimo violoncellista e sound designer.
La Mostra “… di bianche spine” è un viaggio – riflessione sulla condizione della figura femminile nel terzo millennio - scrive Angela Ciano nella presentazione in catalogo - In un periodo in cui alcuni stereotipi sembrerebbero superati, il potenziale comunicativo del gesto artistico di una donna li fa riaffiorare con tutta la loro urgenza e drammaticità. E non si tratta solo di un nuovo modo di pensare alle forme di violenza più tragiche, che troppo spesso sfociano nella morte e che pure hanno un loro portato necessario. Nella sua ultima ricerca Donatella Giagnacovo non si ferma solo a questo, con la sua sensibilità di artista e donna, di moglie, madre ed insegnante, scava in profondità cercando di far riaffiorare la condizione vera in cui si trova a vivere ogni giorno la donna del terzo millennio”. Nascono così opere che in un’apparente leggerezza di forma e materia indagano il mondo femminile con un lessico narrativo che ha in comune la scelta del bianco ma non come resa al colore, bensì come necessità: il bianco come luce per illuminare le ombre e le oscure proiezioni che si riflettono sull’essere donna, il bianco di cui si impregna la materia e che da essa arretra per lasciare il posto al valore espressivo della forma. Ed allora temi come la donna oggetto, la sposa bambina, la donna succube o stereotipo di bellezza ma non intelligenza, la donna violentata, aggredita ed infine trucidata tornano di un’urgenza che prende allo stomaco guardando le opere di Donatella Giagnacovo. Opere che attraggono lo sguardo per la loro immediata leggerezza e per il loro nitore; ma che al tempo stesso lo inchiodano alla riflessione e alla presa di coscienza. Una dialettica continua in cui il pensiero/gesto dell’artista si serve di materiali evanescenti e diafani: veli, pizzi, trine, nastri, fiori, peluche, piume e di quelle iconografie che fanno parte del mondo femminile fin dalla nascita. “Ma esse, attraversate dal pensiero e dalla sensibilità dell’artista, - si legge ancora nel testo del catalogo - perdono la loro forma sterile trasformandosi in strumento in grado di produrre senso, di generare un pensiero nuovo. Nascono così la valigia di peluche o il vestito della sposa bambina realizzati in cemento; le scarpe solo apparentemente vezzose, tempestate di spilli e immerse, anch’esse, in una colata di cemento; si materializza così in tutta la sua ingombrante presenza il vestito di velo trasparente, desiderio di chissà quali promesse, che una miriade di spilli al posto delle cuciture lo rendono un oggetto spettrale simbolo di ancestrali soprusi. E poi ci sono i busti/corazza e le maschere/ prigione in plastica trasparente, in garza … oggetti leggeri ed impalpabili … depurati fino all’astrazione e realizzati con materiale di recupero che, in un rimando ideale al ready made duchampiano, sottolineano la loro presenza ingombrante, diventando attraverso il fare artistico, sinonimi di gabbie ed involucri in cui da sempre sono costretti il corpo e l’anima di una donna”.