Martedì, 15 Marzo 2022 14:55

Scala dei Turchi

Scritto da Salvatore Battaglia - Presidente Accademia delle Prefi

di Salvatore Battaglia - Presidente Accademia delle Prefi

Roccia chiara ondulata - come le ciocche di una nonna. Su di te il vento, il mare e la vita - hanno infierito fino a darti la sembianza: imperfetta nella forma e stanca - tutta bianca - come il latte di una madre. Mutata ora dall’erosione - della passione antica non sai più niente - mentre, seduta sulla seggiola in legno chiaro - stuzzichi un pensiero antico - mezza divertita dal brulicare della gente. (F. Lucantoni)

Tutte le meraviglie e nefandezze dei tre giorni trascorsi ad Agrigento. Tra le prime, il b&b I Mori di Porto Empedocle, hotel a quattro stelle sotto le mentite spoglie di un banale appartamento: camera ariosa, bagno moderno impreziosito dalle antiche piastrelle dipinte a mano, balconcino in ferro battuto con vista sul corso, fiori dappertutto sembravamo in un fioraio di prima mattina. Ma la sorpresa fu l’oste, Onofrio. Con discreta e garbata premura, ogni mattina ci regalava un cannolo fritto e una brioche alla crema di pistacchio che strabordava tanto era piena; poi ci indirizzava alle spiagge più appartate, ai ristoranti più autentici, ai monumenti più spettacolari. Onofrio non era solo attento e gentile, quasi galante, era anche innamorato della sua terra, e ce la raccontava, senza parlarsi addosso, rielaborandola su ciò che volevamo vedere, non sbagliando un colpo. Era martedì ed era il nostro primo anniversario di matrimonio: Onofrio intuì la voglia di una fuga speciale e ci spedì alla Scala dei Turchi; era comunque in programma, ma senza le sue dritte avremmo sbagliato orario e tragitto, annodandoci in code e resse. Invece così, in dieci minuti, dalla provinciale sovrastante atterrammo sull’anticamera sabbiosa di questa formazione aliena, raggiungibile solo via mare.

La Scala dei Turchi è finta, è evidente, l’hanno costruita quelli dell’Aquafan a immagine e somiglianza delle loro circensi attrazioni da riviera; in cartapesta, come i carri di Viareggio. Per calpestarla, dobbiamo guadare centocinquanta iarde di Mediterraneo paludoso, zavorrati dall’invidia per i temerari illegali che scelgono il sentierino asciutto su terraferma, ufficialmente interdetto per pericolo di frana. Sì, perché la cartapesta in realtà è calcare, friabilissimo, consolidato in marna bianca che sale per cinquanta metri, staziona in cielo, poi precipita e s’immerge nell’acqua, scheggia di pietra maestosa e fragile. Al termine della traversata nel fango, un ponticello ci scarica sulla Scala e perdiamo la vista: il luccicore della parete riflette il sole che non si riesce a tenere gli occhi aperti. A tentoni, strizzando le palpebre, raggiungiamo il primo livello, a circa dieci metri verticali dal mare; è il livello del passaggio: terrestri storditi e mezzi ciechi vagano sul candore di questo meteorite scagliforme, precipitato da una galassia dispettosa nella Sicilia sud-occidentale. Per evitare collisioni, ci issiamo al secondo livello, il livello della sosta, quattro metri sopra. E lì restiamo, a ubriacarci dell’azzurro e del bianco, resistendo alle tentazioni del terzo livello, quello dell’avventura, dieci metri più su, la cui conquista lasciamo ai branchi d’improbabili arrampicatori in infradito, a caccia della madre di tutte le foto da appendere su instagràm.

Ma sempre per non essere troppi critici ci siamo goduti veramente la giornata in un’atmosfera indimenticabile…, il biancore accecante e il mare cristallino mi riportarono con la memoria di vecchio viaggiatore a Pamukkale, (che in turco significa "castello di cotone", è un sito naturale della Turchia sud-occidentale, nella provincia di Denizli) che in un mitico viaggio in compagnia dell’amico Antonio La Montagna visitai… correva l’anno 1992.

Ah dimenticavo che il nostro Oste Onofrio oltre ad averci dato delle dritte sia sulla Scala dei Turchi ci diede un’altra indicazione: "Andate a Lido Rossello, quello che si vede dalla Scala dei Turchi, alla fine della baia; parcheggiate, entrate nella spiaggia attrezzata, poi seguite la costa a sinistra; a un certo punto c’è un cartello di divieto di accesso per frane, non vi preoccupate, si può andare; percorrete un cinquanta metri tra scogli e mare e vi ritrovate nella baia delle falesie dove non c’è nessuno, perché tutti si fermano al cartello di divieto d’accesso". Chissà come mai, Onofrio…

Certo che eravamo stati fortunati ad avere conosciuto Onofrio (il Virgilio locale…), per assaporare al meglio i tre giorni dedicati a questo lembo della Sicilia che con dovizia di particolari il giorno prima della partenza per l’escursione ci erudì sulla storia e la leggenda che aleggiava sulla Scala dei Turchi…

Onofrio seduto nella sua sedia azzurra preferita così inizio… Il nome “Scala dei Turchi” nasce probabilmente nel Cinquecento. Questo è infatti il secolo in cui si intensificano, in tutto il Mediterraneo, le incursioni da parte dei pirati saraceni. Questi provenivano dalla penisola arabica ma venivano erroneamente chiamati “turchi”.

In questi anni di paura e violenza i siciliani iniziano così a chiamare con il termine “turco” tutto ciò che è nero, scuro, e contrastante con la norma. Nella cucina siciliana esistono ad esempio il “salame turco “, un dolce scuro perché preparato con il cacao e la “testa di turco “, una sorta di vendetta culinaria. La particolare forma a gradoni della Scala dei Turchi la rende simile ad una scala scavata dall’uomo nella roccia. In realtà è frutto esclusivamente dell’azione degli agenti atmosferici che tendono ad erodere con più facilità i livelli marnosi più teneri, lasciando più sporgenti i livelli calcarei più tenaci e resistenti.

La Scala è costituita da marna, una roccia con un caratteristico colore bianco puro. Si erge maestosa tra due spiagge di sabbia fine e una volta raggiunta in quel punto si intravedono i fondali del mare che sono limpidissimi tanto che è possibile vedere attraverso le acque il movimento della flora e della fauna.

La roccia e tutto il paesaggio della Scala dei Turchi assumono invece tanti volti diversi a seconda del momento della giornata: in pieno giorno, nelle ore più calde, la roccia diventa candida ed il blu del mare risplende sotto i raggi del sole. Durante il tramonto invece la lastra assume un colore rosso tenue mentre di notte a dominare sono i raggi di luna che si sposano col candore della marna bianca.

Secondo la ricostruzione storica, la fondazione di Realmonte sarebbe avvenuta dopo la battaglia di Lepanto del 7 ottobre 1571 ovvero dopo la sconfitta degli Arabi ad opera dei Cristiani e quindi dopo la riduzione delle loro incursioni. Per questo motivo, nei secoli precedenti, la Scala sarebbe stata solamente un punto d’appoggio per le bande di pirati. Ma non solo. Secondo i documenti dell’epoca, furono proprio le navi del Governo siciliano a dare l’assalto ai Saraceni.” Esisteva una disposizione vicereale per la quale chi catturava un turco ne diventava automaticamente proprietario” afferma il dott. Giovanni Gibilaro, storico e ricercatore “da cui il famoso detto siciliano: ‘cu piglia un turcu è so’ (chi riesce a catturare un turco se lo prende come schiavo) detto in occasioni in cui regna la confusione e l’anarchia per cui ognuno cerca di arrangiarsi come può”.

Onofrio alla fine della sua erudita descrizione storica ci deliziò con la leggenda di U Zitu e a Zita

Sempre seduto sulla sua amata e comoda sedia blu Onofrio ci disse che fra le parecchie leggende sulla Scala dei Turchi la più famosa legata al sito era quella di ‘U Zitu e a Zita’.

E così iniziò: La storia racconta di due giovani, Rosalia, figlia di un ricco signore di Realmonte, e Peppe. I due ragazzi si incontrarono un giorno quando Rosalia tornava dalla passeggiata quotidiana, in compagnia della sua governante, e Peppe trasportava un sacco pieno di fave. Già in quella prima occasione, i due si innamorarono perdutamente l’uno dell’altra. Ma il loro amore fu subito ostacolato dal padre di Rosalia, che non voleva per la figlia un povero operaio come marito. Per questo, Rosalia e Peppe furono costretti ad incontrarsi furtivamente ed ogni volta per breve tempo. Sconsolata per non poter vivere pienamente il proprio amore, Rosalia iniziò a non toccare più cibo e a deperire. A quel punto il padre consultò un medico, il quale disse che la ragazza era malata di ‘malinconia’ e le ‘prescrisse’ delle lunghe passeggiate all’aria aperta. Quelle passeggiate divennero presto occasione d’incontro fra Peppe e Rosalia. Questo però non sfuggì all’occhio attento della governante, che raccontò tutto al padre della fanciulla.

Questi decise allora di rinchiudere Rosalia in un monastero sperduto in provincia di Palermo. Di fronte a questa terribile notizia, i due giovani giurarono di rimanere “uniti per la vita e per la morte” e, a notte fonda, si recarono sulla Punta di Monte Rossello e da lì si gettarono nel vuoto.

E proprio lì dove Rosalia e Peppe misero fine, insieme, alle loro vite, spuntarono, uno vicino all’altro, due scogli, uniti da un’esile lingua di roccia “Scogghiu do zzito e a zzita”. E, secondo la leggenda, nelle notti di luna piena quando il mare è in bonaccia, proprio nell’anniversario della tragedia dei due giovani, vicino agli scogli si sente Rosalia cantare una melodia triste in ricordo del suo amore sfortunato per Peppe.

Poco dopo il racconto di Onofrio mi addormentai e sprofondai in un sogno incongruo, di cui ricordo solo il tentativo di imbarcare in aereo la Scala dei Turchi, per conficcarla nel parcheggio del cortile, di fronte alla mia veranda di Minerva, a Marina di Ragusa.