Addio. È la parola che oggi risuona più forte a Hollywood, mentre la notizia della morte di Jim Mitchum — avvenuta il 20 settembre scorso, ma annunciata solo oggi dai familiari — scuote l’industria del cinema con il ritardo struggente di un’eco lontana. Figlio del leggendario Robert Mitchum, Jim se n’è andato nella quiete della sua casa di campagna a Skull Valley, in Arizona, dopo una lunga malattia. Aveva 84 anni.
Con lui scompare non solo un attore dal talento discreto ma autentico, ma anche l’ultimo frammento di una generazione che preferiva il silenzio alle luci della ribalta.
Un’infanzia tra ombre e riflettori
Nato a Los Angeles l’8 maggio 1941, Jim era il primogenito del grande Robert Mitchum e di Dorothy Spence, donna riservata che avrebbe voluto tenerlo lontano dal mondo dorato e spietato del cinema. Ma Hollywood, si sa, non risparmia nessuno, soprattutto chi nasce nel suo cuore pulsante.
A soli otto anni, Jim debutta in “Gli amanti della città sepolta” di Raoul Walsh, un’esperienza breve ma significativa, che segna il suo primo incontro con la macchina da presa. Sua madre spera che resti un episodio isolato, ma il destino è già scritto sul suo volto: la stessa mascella decisa del padre, lo stesso sguardo obliquo, quell’aria di chi osserva il mondo con una punta di malinconia.
Nel 1958, a sedici anni, la somiglianza con Robert è talmente forte che viene scelto per interpretare il fratello minore del padre in “Thunder Road”, film cult ambientato tra i contrabbandieri di whisky del Sud. Diretto e prodotto da Robert Mitchum, il film diventa un successo inatteso e un piccolo classico del genere. Padre e figlio recitano insieme, ma ciò che accade sullo schermo è qualcosa di più: è un passaggio di testimone, un duello affettuoso tra due generazioni destinate a comprendersi più attraverso i silenzi che le parole.
Il peso di un cognome ingombrante
Essere un Mitchum negli anni Sessanta significava portare sulle spalle una leggenda. Robert era l’eroe stanco e affascinante del noir americano, il volto che aveva ridefinito la mascolinità sul grande schermo. Jim, invece, si muoveva nell’ombra, diviso tra l’orgoglio di quel nome e il desiderio di costruire una propria identità.
In un’intervista concessa nel 1972 al Los Angeles Times, confessò:
«A volte sentivo che ogni mia battuta veniva ascoltata con l’eco di mio padre dietro. È difficile parlare con la tua stessa voce quando tutti cercano un’altra.»
Negli anni Sessanta, Mitchum partecipa a diversi film di guerra e d’avventura: “The Victors” (1963), “Ride the Wild Surf” (1964), “In Harm’s Way” (1965) con John Wayne e Kirk Douglas, e “Ambush Bay” (1966) con Hugh O’Brien e Mickey Rooney. Nonostante ruoli solidi e interpretazioni credibili, non raggiungerà mai la notorietà del padre. Ma chi lo ha visto sullo schermo ricorda la sua presenza naturale, mai costruita, il modo in cui sapeva “stare” nella scena più che recitarla.
L’amicizia con Elvis Presley e il sogno musicale
Pochi sanno che Jim Mitchum fu anche vicino a Elvis Presley, conosciuto nel 1960 durante una festa a Beverly Hills. Tra i due nacque un legame di rispetto e simpatia reciproca: entrambi figli di un’America che stava cambiando, entrambi insofferenti alle etichette.
Spinto dall’amico, Jim incise un singolo nel 1961, “Lonely Birthday”, un brano malinconico e genuino che però non ottenne successo. Elvis gli scrisse in seguito una lettera, raccontano i biografi: “Hai una voce che sa di polvere e di verità. Non perderla.” Mitchum non la perse, ma la tenne per sé, lontano dai riflettori. Il sogno musicale si spense in fretta, ma la passione per la libertà e l’autenticità restò intatta.
Tra cinema indipendente e il culto di “Two-Lane Blacktop”
Gli anni Settanta riportarono Mitchum sul grande schermo in un contesto completamente diverso. Il regista Monte Hellman lo volle nel suo “Two-Lane Blacktop” (1971), un film destinato a diventare un simbolo del cinema on the road e della controcultura americana. Accanto a James Taylor e Dennis Wilson dei Beach Boys, Jim interpreta un piccolo ruolo, ma lascia un’impressione profonda: il suo volto severo e stanco sembra rappresentare l’America stessa, divisa tra sogno e disillusione.
Poco dopo partecipa a “The Last Movie” (1971) di Dennis Hopper, un’opera visionaria e anarchica che chiude idealmente la stagione della ribellione cinematografica. Jim entra nel set con umiltà, consapevole che la sua epoca stava finendo. Non cercava più il successo, ma una verità personale. E la trovò, come suo padre, lontano dalle luci.
Lontano dai riflettori
Negli anni successivi, Mitchum decise di allontanarsi progressivamente dal cinema. Rifiutava l’idea di rincorrere un ruolo qualsiasi solo per restare visibile. Scelse invece la vita rurale in Arizona, con la moglie Pamela, la stessa donna che oggi ha annunciato la sua morte. Amava la fotografia, i cavalli, e il silenzio del deserto al tramonto.
«Papà recitava come viveva: senza copione», diceva spesso a chi lo intervistava. Anche lui, in fondo, aveva seguito quella filosofia: una carriera breve, ma sincera, senza compromessi, senza marketing. Un uomo che aveva vissuto e lavorato con sobrietà, lasciando che a parlare fossero le immagini.
Un annuncio tardivo, un’eco lunga
L’annuncio della morte di Jim Mitchum arriva con due settimane di ritardo, e proprio per questo assume il sapore malinconico di un addio che si propaga nel tempo, come un’onda lenta che arriva a riva dopo aver attraversato il mare. Secondo il portavoce della famiglia, «Pamela era accanto a lui fino all’ultimo, e ha voluto che il suo nome fosse ricordato solo quando fosse pronta a farlo».
La notizia, diffusa oggi da Variety, ha subito fatto il giro del mondo, rilanciata da colleghi e appassionati. Molti hanno ricordato Jim come “l’attore che non cercava la scena, ma la verità dietro di essa”. In un’epoca in cui tutto si misura in visibilità, la sua vita è la prova che la dignità può esistere anche lontano dai riflettori.
L’eredità silenziosa di un nome
Nel grande mosaico del cinema americano, Jim Mitchum occupa una tessera piccola ma essenziale. Non un protagonista, ma una presenza che racconta un modo di fare cinema ormai perduto: quello dove la luce del proiettore era più importante di quella della fama.
I suoi ruoli, spesso minori, sono oggi riscoperti dagli appassionati e dagli studiosi come esempi di autenticità interpretativa. Il suo volto, così simile a quello del padre ma più fragile, più umano, resta il simbolo di una Hollywood che non esiste più — quella in cui anche i secondi piani avevano l’anima dei protagonisti.
Come scrive Variety nel suo necrologio:
“Jim Mitchum non è mai stato una star. È stato qualcosa di più raro: un uomo che non ha mai recitato una bugia.”
Un epitafio perfetto per chi, come lui, ha vissuto il cinema non come un mestiere, ma come una confessione silenziosa.
E adesso, che la pellicola si è fermata, resta il suo sguardo — quello di un figlio, di un attore e di un uomo — che ancora scruta il buio della sala, aspettando che qualcuno, da qualche parte, prema di nuovo play.




