Martedì, 17 Giugno 2025 16:38

Il ghiacciolo: protagonista e simbolo dell’estate al mare, un sapore pieno di ricordi…

Scritto da   Salvatore Battaglia Presidente Accademia delle Prefi

Salvatore Battaglia Presidente Accademia delle Prefi

Ghiacciolo, gelato d'estate

Ghiacciolo, cristallo di dolcezza, sapore d'estate intrappolato in un bastoncino.

Menta fresca, limone aspro, fragola succosa, ogni morso un viaggio.

Ricordo di giochi al sole, risate e spensieratezza, il mondo che si ferma per un istante di puro piacere.

Ghiacciolo, piccola opera d'arte effimera, che si scioglie tra le dita, lasciando un sorriso.

Il ghiacciolo viene particolarmente consumato in estate per trovare così refrigerio dopo una giornata di caldo asfissiante. La sua storia è davvero da scoprire visto che è stato un caso incredibile a poterlo poi assaporare da tantissimi anni. E l’opera è stata, a sua insaputa, proprio di lui… Di chi parliamo?

Pochi sono gli elementi che rimandano all'infanzia in maniera così potente quanto il ghiacciolo. Un prodotto così semplice, composto solo da acqua, zucchero e frutta o aromi, congelati attorno a un bastoncino di legno. Eppure è così evocativo…

Dite "ghiacciolo" e subito tornano alla mente gli inizi delle lunghe estati alla fine dell'anno scolastico, quelle infinite partite a pallone in spiaggia, a rincorrersi con i superliquidator, la ragazza o il ragazzo che ci piaceva da guardare da lontano, i vestiti freschi e puliti dopo le ore in acqua salata. Nella testa degli italiani riaffiorano tanti ricordi diversi.

La nascita del ghiacciolo è tutt'ora avvolta da una coltre di mistero ma ciò che è successo dopo invece è chiaro a tutti: un successo planetario che ha attraversato momenti importanti della storia.

Il ghiacciolo è davvero molto conosciuto da tantissimi anni che ha qualcosa di incredibile a partire dal 1912. L’episodio è avvenuto in California a Okland, quando un bambino di nome Frank Epperson stava giocando con la soda ed acqua all’interno di un bicchiere. Era inverno e così si divertiva a mescolarla con un semplice bastoncino di legno quando dovette fermarsi per andare a cenare e poi a dormire lasciando così quel bicchiere al freddo e al gelo.

Al risveglio vide che quel bicchiere sulla finestra si era congelato con il bastoncino al suo interno e cercò in tutti i modi di sfilarlo provando a usare anche un po’ di acqua, per poi gustarlo così. Fu lo stesso Frank che cercò di vendere il suo ghiacciolo per tanti anni nel suo quartiere senza avere tuttavia successo.

L'arrivo del ghiacciolo in Italia grazie alle truppe Alleate

Com’ è possibile che non ci avevamo pensato prima noi al ghiacciolo? Questo resterà un cruccio che ci porteremo dietro per sempre. Proprio noi che In Italia avevamo creato il gelato (e anche la granita), abbiamo dovuto aspettare lo sbarco degli Alleati in Sicilia per apprezzare il gusto del ghiacciolo. Oltre al "Popsicle", rigorosamente a uno stecco, arrivarono anche i gelati industriali che, anno dopo anno, si son presi un'enorme fetta di mercato, facendo diventare il gelato artigianale italiano un’eccellenza.

L'impatto del ghiacciolo sul palato degli italiani è più freddo di quanto ci si aspetti poiché solo negli anni del miracolo economico e dell'industrializzazione sfrenata questo prodotto acquisisce una certa fama. Sarà solo grazie alla BIF e la COF, due aziende bolognesi che il ghiacciolo arriva in tutta la Nazione con un successo immediato. Un prodotto dolce, rinfrescante, dissetante che dona sollievo immediato quando fa caldo. Un elemento che evoca dolci ricordi e che si ritaglia una fetta di mercato anche nelle gelaterie artigianali, messe un po' in ombra dall'arrivo dell'Icecream degli Alleati americani. Anche questo è un fatto strano: il ghiacciolo si può fare in casa molto facilmente eppure ha dovuto intervenire la grande distribuzione per portarlo nei frigoriferi degli italiani.

Fra tanti ricordi uno affiora in questo periodo così caldo… il mio primo ghiacciolo… Ragusa Ibla anni ‘60

Quando ero piccolo ma in grado di capire le cose, dopo aver svolto i compiti uscivo da solo o con gli amici e mi fermavo a giocare nei paraggi di casa. Si andava in bicicletta nel corto rettilineo tra la fontanella pubblica e la piazza della chiesa delle Anime del Purgatorio.

Era un tragitto breve ma per noi bambini sembrava una tappa del Giro d’Italia, esso era dritto e piatto ma noi ci vedevamo curve, salite e discese. Prima di avere una bici tutta mia, usavo le bici degli amici. Allora la bici, regalatami dai miei genitori, era costava diecimila lire ed era usata ma a me sembrava quella di Gimondi.

Mia nonna Marianna, donna molto religiosa, mi aveva spiegato l’intitolazione della nostra Parrocchia: “Era ‘a prima porta pi trasiri o pararisu’ (era la prima porta per entrare al paradiso), ossia che in tempi remoti si credeva che, pregando davanti alla raffigurazione delle Anime del Purgatorio situata nella navata laterale destra della chiesa, si poteva dare un po' di sollievo alle Anime dei propri cari che al momento si trovavano in quel luogo di transizione.

I miei compagni di sgambate in bici erano Gino (Biagio) e Davide.

In casa del primo, che era anche mio compagno di classe alle elementari, ci andavo a fare lunghe partite a Monopoli anche se perdevo sempre, difatti Gino ‘comprava’ terreni, case e alberghi e mi mandava puntualmente in rovina. Giocavamo anche coi trenini elettrici, a casa sua o a casa mia, anche se il suo era un costoso Rivarossi e il mio un più modesto Lima.

Qualche volta invitavo Gino in casa mia e insieme ai miei cugini più piccoli facevamo una gran cagnara. Si saltava ripetutamente su un vecchio divano, facendo un gran baccano, fino a quando si affacciava mia mamma sulla porta della sala e ci diceva “fate i bastardazzi?”, e quello era il segnale per piantarla lì.

Quel divano, che noi bistrattavamo come una rete da circo equestre, era in realtà un pezzo di antiquariato siciliano, di cui in seguito i miei genitori si erano disfatti in cambio di una panca da ingresso, di quelle fatte in serie, per ritrovarlo poi sontuosamente tappezzato e rimesso a nuovo, in vendita a una cifra astronomica, nella vetrina del mobiliere Tumino.

Oltre a usare la bici si giocava pure a pallone, in piazza, ma a quella attività ricreativa avrei dedicato più tempo in seguito quando, crescendo, fui ammesso alla ristretta cerchia di iniziati che potevano godere di quel privilegio.

Nel tempo libero tutti noi ragazzini della mia età, che eravamo iscritti d’ufficio al gruppo degli ‘Aspiranti’, andavamo nella sede dell’Azione cattolica. Si poteva giocare a calcetto e al biliardo e, nelle tante stanze a disposizione, si andava la domenica a catechismo.

In giro non c’erano molti altri svaghi né occasioni di divertimento: la mia generazione è cresciuta così, in mezzo alla strada.

Bevevamo alla fontanella o alle canne dei contadini e nessun genitore andava mai a fare un esposto all’ASL per verificare la purezza dell’acqua. Forse perché le ASL non esistevano ancora o forse perché i nostri amati genitori avevano visto di peggio durante la guerra.

Ricordo che a carnevale ci mascheravamo con quello che si trovava, al massimo ci compravamo una pistola e un cappello da sceriffo e ci divertivamo così, senza annoiarci e senza fare i bulli.

Alla parata del ‘Giufa senza testa’ (sfilata in maschera) si partecipava tutti e le bambine venivano premiate per i loro costumi: avevano addosso i vestiti dismessi delle nonne e tuttavia vincevano classificandosi con la più nobile livrea di “damine dell’800”.

Da quel punto, davanti alla sede della vecchia cancelleria che comprendeva anche a pochi metri la chiesa dell’Idria, si svolgevano le premiazioni di cui ho un ricordo particolare. Fu proprio durante una premiazione che un alto prelato, posizionato in cima alle scale esterne in pietra del Palazzo, rivolgendosi al folto pubblico di bambini presenti, aveva maliziosamente chiesto: “Preferite la mamma che avete a casa o quella che avete in cielo?”.

E i bambini tutti in coro, con grande slancio, incoraggiati dalle tante e tante mamme presenti, avevano urlato: “Quella del cielo!”.

In quel momento avrei voluto alzare la mano per dire che No… Io preferivo la mia di mamma, quella che avevo a casa ma, intuendo, come tante altre volte mi è poi capitato nella vita, che sarei stato guardato male, di traverso, come un disadattato.

Ripensandoci oggi credo che, se si riproponesse l’occasione, questa volta parlerei anche senza polemica, solo per dire che tra le due mamme, per un bambino di quella età, non doveva esserci conflitto. Infatti una la si vedeva, ed era quella che scodellava la minestra e rimboccava le coperte e l’altra, di cui a quell’età si aveva solo vagamente sentito parlare, la si immaginava come protettrice in Cielo.

Se la situazione si ripresentasse oggi verrebbero messe in discussione la privacy, la pluralità dei credi e delle confessioni, l’ingerenza negli affari di stato e il complesso di Edipo.

La verità è che oggi i tempi sono cambiati.

Dalle parti di casa mia, nelle strade interne, girava il furgoncino del ghiaccio a cui noi davamo la caccia, soprattutto d’estate.

Agli inizi degli Anni ’60 nelle case non c’erano ancora i frigoriferi, sarebbero arrivati da lì a poco insieme alle cucine americane in formica e ai lavelli in inox. Si usavano le ghiacciaie che non producevano il ghiaccio ma lo consumavano lentamente per conservare i cibi e tutto ciò sembrava già un lusso così.

Il furgoncino, di cui parlavo poc’anzi, si trascinava dietro una fila di petulanti mocciosi, tra i quali c’ero pure io. Quando si fermava tutti noi partivamo all’assalto, come i pirati che abbordano una nave in rada.

L’autista era un bonaccione, non si scocciava mai e ci spezzava col punzone delle piccole scaglie che noi leccavamo fino alla loro consunzione: mai mangiato dei ghiaccioli così buoni. Erano solo acqua, non avevano né gusto né colore, quei sorbetti, ma il refrigerio che concedevano era impagabile.

Qualche tempo dopo un nuovo autista, molto meno tollerante del precedente collega, ci prendeva a calci nel sedere quando ci vedeva avvicinare al cassone.

Nel frattempo nelle latterie e nei bar iniziò il commercio dei ghiaccioli veri, quelli di marca e se ne vendevano in gran quantità. Uno dei ghiaccioli più gettonato era “Conti” e si poteva vincerne un altro se nello stecchino si trovava la scritta ‘hai vinto!’.

I miei genitori erano contrari ai ghiaccioli, dicevano che rovinavano la pancia… al massimo mi concedevano il camillino, il pinguino o la coppa gelato dei piccoli. Per non essere rimproverato, io li mangiavo lontano da casa e poi mi sciacquavo bene le labbra per non lasciare tracce di colore.

Ricordo che una volta una buon’anima di donna – che Dio l’abbia in gloria – mi aveva visto mentre me ne mangiavo uno e, chissà perché, era corsa a dirlo a mia mamma.

A casa ero stato sottoposto a un interrogatorio di terzo grado e mi sentivo tremendamente in colpa: il ghiacciolo mi era piaciuto ma poi mi era andato di traverso. “Hai mangiato una coppa o un ghiacciolo?” incalzava mia madre, a cui avevo spudoratamente mentito: “Una coppa – avevo risposto – di quelle con la ciliegia”.

E questo era uno dei peccati bianchi possibili a quei tempi che non venivano facilmente perdonati. Altri tempi…