Venerdì, 26 Febbraio 2021 16:05

Prosit

Scritto da Silvio Madonna

Non devo ma voglio.

La sottraggo con riguardo alle altre che ammiccano su un ripiano della cantina. Con il collo sottile, uno sfilatino di corda a mo’ di cravatta e una copertina che l’ammanta copiosa davanti, striminzita di dietro. Quasi come una donna discinta che adesca l’ultimo cliente alla fine di una dura nottata.

Non devo ma voglio.

Mi tenta. Non è l’ora, non è il momento, ma solo passarle la mano sulla sua rotondità tenebrosa mi esalta in un brivido che sa di godimento animale.

Prometto che non ne verso neanche un goccio, solamente ne assaporo la fragranza…

Mi faccio schifo da solo, sono doppiamente bugiardo, verso me e colei che colpe non ha.

Non fare lo stronzo, sai bene che non riusciresti a contenerti.

L’immortale coscienza ha maledettamente ragione. Mai sopita, mai una volta che si distragga presa da altro.

Un goccetto non fa male, piuttosto fa buon sangue.

Lo giurava con voce stentorea, il gesto ampio e lo sguardo incerto, un amico fraterno suscitando ogni volta le nostre fragorose risate durante il banchetto che ogni mese amavamo replicare come auspicio per una vita infinita. Faticosamente eretto, con il petto gonfio, cercava la pausa ad effetto per la stoccata finale: Prosit… E giù uno scampanio di cristalli che echeggiava rinforzato da incalcolabili bis. Morì di cirrosi prematuramente. Il goccetto per lui non era mai stato single, solo un tormento che non aveva fine ma solo inizio.

Non devo ma voglio.

L’afferro rapace con la sinistra, elevo con la destra il cavaturaccioli argentato. La devo violare, come farebbe il pescatore con l’ostrica appena ghermita allo scoglio. Affiora lo spasimo del peccatore che sa di trasgredire assaporando la gioia che il Demone viscidamente gli offre. Ma di quale crimine stò vaneggiando? Mi scuoto, mi ricordo di essere maschio prima che uomo. Con rabbia penetro il sughero con il ferro uncinato: fa resistenza, raddoppio lo sforzo. Lo schiocco della resa mi dà vigore. Lo stropiccio alle narici. Si gonfiano di quanto ha smesso di trattenere. Le labbra fremono intorno alla lingua che fa capolino puntuta. Stringo il trofeo ispessito del mio sudore, mi destreggio con un calice dal gambo anoressico. Inclino il vetro e ammiro il Montepulciano che sgorga denso dopo due anni di sottomissione forzosa. Una spuma rossastra, che sa di risacca marina al tramonto, si calma non appena trova la conca che le dà riparo. E’ magma ipnotico, è calore irruente, è sangue purissimo. È un effluvio di campi assolati, di umido ottobre, di fianchi femminei che si torcono nelle sottane lunghe e increspate. Faccio danzare tra le dita il bicchiere. Sospiro, respiro, trattengo quel paradiso nei polmoni.

Non devo ma voglio.

Lo avvicino alle labbra. Socchiudo gli occhi come prossimo a un delirio su un seno superbo quando una mano scende sul mio polso e lo ingessa. Mi riprendo. È la mia donna, colei che quel peccato di gola sa rinnovare da anni con piglio maschio e perseveranza femminea. Sfacciata devia il calice sulla sua bocca. Lo poggia sulle labbra sverniciate di rossetto, scolorite di matita, ispessite di piacere. Le impregna nel carminio, ci sfila sopra la lingua per dare scena a ogni millimetro di carnosità. Compiaciuta del mio puerile livore plana triviale sulla rigidità delle mie cosce e mi bacia inebriandomi.

Sorride felina di me imbambolato.

Sorride appagata del piacere che mi ha rubato.

Sorride trionfante sapendo che sarò sempre ostaggio della sua anima rossa.