Una vita spesa dentro un ufficio di una affollata stazione ferroviaria a vedere da un monitor impallato di luci e freccette transitare centinaia di treni al giorno: ad annotarne ritardi, problemi, disfunzioni. Quello strazio era finito e dal mese successivo avrebbe ritirato il primo assegno di quiescenza. Non lo aveva detto neanche ai suoi due figli che la sua vita lavorativa fosse conclusa: si sarebbero preoccupati e, vivendo a cinquecento chilometri da casa sua, avrebbero cominciato la tiritera a rimbalzo del “quando ti decidi a vivere su da noi?”. Non volevano che restasse solo, e unicamente per via della sua attività non avevano insistito più di tanto. Quel pressing sarebbe diventato asfissiante: ma lui intendeva resistere.
Era nato li, aveva lavorato li, si era sposato li, voleva invecchiare li. Morirci anche, ma a suo tempo. Aveva deciso per l’occasione di farsi un regalo e senza troppo pensarci aveva provveduto: presso l’edicola che frequentava gli era caduto l’occhio su un giornaletto patinato, che favoriva incontri con donne giovani e molto allettanti. Elegantemente definite escort, ma lui, anziano anche di semantica, sapeva bene che erano prostitute: di classe, non di strada, ma sempre dedite al mercimonio. Con un pizzico di imbarazzo lo aveva comprato, benché fosse anche in rete: ma le foto, solo a sfiorarle con le dita, erano tutta un’altra cosa. Sfogliato con meticolosità il nutrito e variegato catalogo aveva deciso: avrebbe chiesto un incontro ad Altina: mora, trentacinquenne, alta, sorridente e soprattutto - qualità che pretendeva sopra ogni altra - non fumatrice, come era ben rimarcato nella sua scheda promozionale. Sempre sorridente, tutte sorridenti, anche troppo sorridenti per non immaginare neanche chi le avrebbe pretese. Compose il numero, attese un attimo, e una voce udì. Una parlata fresca, senza particolari inflessioni, sicuramente di un’italiana. Strano, dal nome bruttino aveva pensato a una russa, o giù di li. Molto professionale gli chiese cosa volesse: lui con altrettanta disinvoltura soppesata a tavolino per non farsi cogliere impreparato, replicò. “Ho pensato di incontrarla all’Hotel Gloria, a San Vito Chietino. Alle venti: un aperitivo, una cena e poi andiamo a riposare. Al mattino colazione, due chiacchiere in libertà e infine ci salutiamo. Ha impegni per domani sera? E quanto le devo per il disturbo?”. Ci volle più di un attimo per avere la risposta: forse cercava in agenda se avesse avuto quelle ore libere, forse quell’approccio era così diverso da tanti altri da costringerla a soffocare un moto di riso spontaneo. “Per me va bene, so dove si trova l’albergo. Le dirò, ottima scelta, ci sono stata altre volte per dei briefing e mi sono trovata sempre bene per professionalità e discrezione. Il mio cachet? Ottocento euro, naturalmente contanti e serviti prima della cena!”. Rise forte di quella che aveva ritenuto potesse andare come una battuta: si aspettava un rilancio al ribasso, era nella logica delle cose che ci fosse, ma non avrebbe ceduto di molto. “Molto bene, fa di me un uomo felice. A domani allora: mi riconoscerà, l’attenderò al tavolo dieci.
Una cortesia se non le dispiace: vorrei che venisse vestita semplicemente, con poco trucco, che ci dessimo del lei e che fosse di buon umore. Lo so, magari le chiedo troppo, ma vorrei sentirmi a mio agio, in scioltezza, mi ha capito?”. Avvertì un colpetto di tosse e a seguire un respiro profondo. “A sua disposizione, a domani signore… piuttosto il suo nome?”. Spiazzato da quello che non era un dettaglio, ma sul quale non aveva ragionato, ci pensò un attimo, esitante se dare il suo o inventarsene uno al momento. Poi decise che il suo era meglio, almeno nella confusione emozionale di quel contatto se lo sarebbe ricordato. “Giovanni Fazzari, 65 anni, vedovo, due figli adulti lontani da casa, un cane per compagnia, Mito, che non disturberà, visto che ho già trovato a chi affidarlo. Va bene così?”. Lei questa volta si lasciò andare a una risata genuina. “Okay, okay, non lavoro per stendere un verbale, ma un uomo… La saluto Giovanni, a domani, lei deve essere una persona spiritosa!”. Arrivò poco prima dell’orario concordato: lo trovò seduto nella hall a leggere una rivista. Lui non se ne avvide se non quando se la trovò davanti, sorridente e con la mano stesa: “Piacere Giovanni, sono Altina!”.
Lui si alzò di scatto, non trattenne un moto nervoso per il momento che stava vivendo, e allungò la sua mano: gliela strinse forte, trattenendola. “Ha fame?”. Non riuscì a dire altro: un doveroso complimento alla sua postura, alla sua voce, ai suoi occhi sbarazzini. Alla sua bellezza, che era pari a quella che in foto ostentava. In totale pallone complicò ancora di più il primo approccio. “Azz,.. dimenticavo, mi perdoni!”. Infilò una mano in tasca e tirò fuori una busta gialla, di quelle ministeriali che aveva arraffato in quantità industriale prima di lasciare per sempre la sua scrivania: senza un motivo, come per cementare un ricordo, con una decina di penne e matite che mai avrebbe potuto consumare negli anni da vivere che gli restavano. Lei senza battere ciglio la prese e la infilò nella sua borsa. “Si fida? Non li conta?”. Sorrise sorniona: lo avrebbe fatto poi in bagno, prima di salire in camera. Fu una cena silenziosa, curata nel menù a base di pesce, annaffiata da un ottimo pecorino non eccessivamente freddo. Una cena di poche e soppesate parole e di tanti sguardi reciproci. Un annusamento di coppia, lo avrebbe definito a mente fredda.
Lui era emozionato, lei intrigata da quell’incipit. Un cliente diverso dai tanti maneggiati: non un rozzo, un ricco esibizionista, un cafonazzo che non smetteva mai di parlare al cellulare solo per ostentare al polso un Rolex da ventimila euro. O una fetecchia contraffatta. Quel signore era mite, di poche e misurate parole, attento ad ascoltare più che a sentire. Prima di salire in camera le chiese se volesse fare due passi lungo il piccolo molo del porticciolo. Era fine settembre, l’aria mite e i turisti già tornati alle loro città. Una luce fioca imbiancava la banchina e si ascoltava lo sciacquio delle misere onde che s’infrangevano sugli scogli. La prese sottobraccio e la strinse a se: per cento metri, forse duecento, percorsi con la lentezza di chi sa che la fretta annulla ogni piacere, anche quello più tenero. “Ha voglia di rinfrescarsi in camera prima di coricarsi?”. Annuì sorridendo, era pagata per quello. “Per i soldi non si preoccupi: ne ho aggiunti duecento di euro, così, senza pensarci. Le dirò Altina: già ora posso dire che, per quel poco che ho avuto modo di conoscerla, sono stati spesi bene! Lei li merita tutti, sono onorato di averla potuta incontrare, conoscere, ascoltare, ammirare”. Le sollevò la mano e la baciò, come un vecchio gentiluomo avrebbe fatto alla dama che stava corteggiando. Salirono indisturbati e scoprirono il letto: lei lo fissava per capire come esordire, lui fingeva di non sentirsi puntati addosso i suoi occhi accesi. In altri casi se avesse atteso un secondo di troppo i vestiti le sarebbero stati strappati di dosso, mani gonfie e pelose avrebbero cominciato a frugarla dappertutto, la saliva a sgocciolargli sulle gote, il fiato di aglio e nicotina avrebbe invaso la sua gola. Con lui no, questo non sarebbe accaduto. Si coglieva imbarazzata, incerta, quasi una debuttante di quell’antico mestiere, uno stato d’animo così nuovo da lasciarla sgomenta. “Giovanni… gradisce che mi spogli qui o in bagno?”. Mai si era espressa così in tanto anni di onorata carriera: fu lei ad arrossire per quella ridicola domanda. L’imbarazzo di lui le si era travasato addosso. Non aveva di fronte un maniaco, un matto, un fanfarone, un complessato, un esibizionista, un cafone arricchito o forse no. Non aveva davanti un perverso, un invasato, uno capace anche di farle del male mascherandosi da persona perbene.
Giovanni era un uomo diverso e basta, una novità per una escort rodata come lei: un signore, magari un tantino bizzarro, ma signore nell’animo. “Se non la infastidisce eccessivamente si spogli qui, cosa che farò anche io: ho una voglia indomabile di guardarla, lei è un incanto disarmante. La disturba se mi siedo sul letto ad ammirarla mentre si denuda?”. Altina rise, tossì e arrossì. Era nel suo dna spogliarsi davanti a un maschio, figuriamoci se la cosa poteva turbarla, ma in quegli attimi qualcosa di strano si sentiva addosso. Da professionista, evitando di darlo a vedere, con dovizia di tempi, di pose, di piegamenti e giochi di chioma, si tolse tutto e gli si pose davanti, mostrando il suo fulgore, la sua gioventù, la sua grazia. “Ora tocca a lei Giovanni… sempre che non voglia infilarsi nel letto vestito! Ma se preferisce spengo la luce, così non la guardo…”. Fu la sua piccola rivincita: uno scherno ingiusto, fuori luogo, ma non trovava modo di uscire dall’angolo in cui si sentiva. Giovanni si spogliò con naturalezza, aggiustando i vestiti su una sedia, come se fosse stato a casa sua: rimase in mutande, poi, senza staccarle gli occhi di dosso, le tirò via. Nudo si eresse davanti a lei nuda.
“Sa che è la prima volta che mi spoglio davanti a una donna che non sia stata mia moglie? Sa che per un istintivo rispetto reciproco lo facevamo persino al buio?” Le passò una mano tra i capelli, come fosse una bambina da accarezzare, e si stese sul letto: lei lo imitò. Tirò su il lenzuolo e si girò su un fianco. A guardarle il volto, a scrutare i suoi occhi, a pensare a chissà cosa. Silenzioso. “Mi da la sua mano?”. Lei strizzò gli occhi: se le fosse saltata addosso sapeva come fare per stremarlo in poco tempo, ma così… Tirò fuori il braccio, scostò il lenzuolo, stese la mano e scopri il seno: alto, dai capezzoli pungenti. “Lei è una donna di rara bellezza!”. Non seppe dire altro che “grazie”, per poi ritrarsi in una difensiva da quel dolce attacco dai risvolti imprevedibili. “Amo molto le mani, sa? La mano dice tutto di una persona, di una donna, di una gran bella donna come lei. La mano è il biglietto da visita di chi abbiamo di fronte. Permette che gliela baci Altina?”. Annuì tacendo e porse il dorso alle sue labbra. “Non così, non così…”. Le prese la mano con delicatezza, la osservò come se mai ne avesse vista una, la ruotò verso l’alto e portò il palmo al suo viso. Annusò la pelle, fissò l’epidermide, posò le labbra sul suo incavo e la baciò. Voluttuoso, appassionato, rapito. “Una mano si bacia dal di dentro: è li che racchiude l’intimo della persona. La mano accarezza, sferza, calma, colpisce, rassicura… Con la mano aperta si saluta, ci si arrende, si scacciano idealmente i cattivi pensieri… Il palmo della mano materializza l’amicizia, intreccia plasticamente con l’altro le preoccupazioni, nasconde il volto quando si piange… Da il cinque nella gioia, abbassa i toni quando si eccitano, raccoglie il calore di un abbraccio, respinge chi delude o offende. Da calore al viril sesso quando emerge, accarezza le labbra femminee per irrorarle di piacere… Perché baciarne il dorso se è il palmo che offre tutto questo?”. Portò nuovamente il palmo di Altina alla bocca, portò l’epidermide umida sulla sua guancia e disegnò una carezza che si unisse allo sguardo.
Lei capì e lo accarezzò dolcemente: intorno agli occhi, dietro le orecchie, tra i capelli folti e argentati, sul collo, sul petto. Facendolo gemere, come prima non aveva ancora fatto. “Vuoi fare l’amore con me?”, gli chiese senza neanche capacitarsi di aver detto una simile cosa, dandogli persino del tu. Lui la fissò estasiato: “Altina… lo abbiamo già fatto!”. Si girò di spalle e attese che fosse lei, senza pretenderlo, ad accucciarsi sul suo corpo, schiacciargli i seni gonfi sulle scapole, soffiargli addosso il suo fiato eccitato, a stringerlo a se a mani aperte. Le mani, le dita, quella stretta, quel contatto senza veli, quel respiro, quel piacere che sapeva di perfezione divina: era solo quello che da anni gli mancava da morire.